Roma, 1903. Immaginate di passeggiare per il centro e notare un monumento, nuovo di zecca, rimasto però coperto da teli e steccati per otto lunghi mesi. Non si tratta di un restauro di un antico monumento ma bensì di uno dei casi più bizzarri della storia della Capitale. Questa è la “strana e curiosa” vicenda della statua di Nicola Spedalieri.
Contesto Storico
Tutto iniziò quando un comitato di personalità influenti nell’alta società della capitale del Regno d’Italia, affette dal cosiddetto all’epoca “male della pietra” (fondamentalmente si tratta di una forte passione nel costruire monumenti dedicati a egregie figure del passato), decise di onorare un personaggio a loro dire ingiustamente dimenticato: l’abate siciliano Nicola Spedalieri, morto nel 1795.
Perché proprio lui? Il comitato vedeva in Spedalieri un eroe del pensiero laico, un precursore dei diritti dello Stato contro il potere temporale della Chiesa, basandosi sulla sua opera “I Diritti dell’uomo”. Entusiasti, commissionarono la statua allo scultore Mario Rutelli e prepararono un piedistallo con l’incisione “A Nicola Spedalieri – La nuova Italia”.
La proposta di erigere il monumento risale al 1882 per iniziativa dell’avvocato Giuseppe Cimbali, nativo di Bronte come lo Spedalieri. Cimbali, affetto da quel “male della pietra” tipico dell’epoca, accomunò audacemente il suo concittadino alle grandi figure del libero pensiero quali Arnaldo da Brescia, Galileo Galilei e Giordano Bruno. Questa volontà cominciò a concretizzarsi soltanto nel 1893, con la costituzione del Comitato d’Onore per il centenario della morte dell’abate. Dopo un primo concorso andato deserto nel 1894, il secondo concorso del 1895 fu vinto dallo scultore Mario Rutelli. La statua era stata eretta nel 1901 e inizialmente posta nella Piazza di Sant’Andrea della Valle.
Nel frattempo alcuni studiosi, insospettiti, si misero a studiare veramente le opere dell’abate. Secondo loro Spedalieri non era affatto un liberale. Al contrario, lo definirono un reazionario, un conservatore, “una banderuola in preda ai venti”, un uomo in perenne contraddizione. L’eroe laico che doveva glorificare la “Nuova Italia” era, in realtà, un fervente papalino. Ed in un contesto in cui il conflitto tra lo stato unitario e la Chiesa era al suo apice, il caso non passò di certo inosservato. L’imbarazzo fu totale. Scoppiò una controversia furiosa. Nel frattempo la statua rimase lì, coperta, “impacchettata” per otto mesi, simbolo di un equivoco che nessuno si sapeva come risolvere.
A causa delle feroci polemiche e delle opposizioni ideologiche, due anni dopo, nel 1903, la statua era stata spostata da Sant’Andrea della Valle al luogo stabilito per la nuova collocazione: Piazza Vidoni. Lì rimase ancora coperta, “impacchettata”, in attesa di una soluzione.
L’inaugurazione
La situazione si sbloccò in un modo assai singolare. Il 23 novembre 1903 alle 2:30, il Questore di Roma, temendo che un’eventuale cerimonia di inaugurazione (o una sua contestazione) potesse degenerare in disordini pubblici, prese una decisione senza precedenti. Nel cuore della notte, inviò una squadra di operai, protetti da alcuni agenti della Pubblica Sicurezza e da altrettanti Carabinieri, a rimuovere teli e steccati.
L’inaugurazione così avvenne senza disordini, dopottutto la popolazione della capitale stava dormendo e gli unici a presiedervi furono proprio gli operai e gli agenti mandati. Fu, come nota il cronista dell’epoca, “l’inaugurazione più bizzarra mai vista”.

Il giorno dopo, i romani si svegliarono e trovarono il monumento scoperto. Il risultato fu il caos: i cittadini passavano confusi, chiedendosi cosa celebrasse quella statua: i diritti dell’uomo o i doveri? Lo Stato o la Chiesa? Il Municipio di Roma protestò furiosamente per l’atto clandestino e si rifiutò di prendere in consegna il monumento. Le società liberali protestarono a loro volta, indignate. Il Comitato... beh, i membri del comitato “non si fecero vivi”, troppo imbarazzati per aver preso un tale abbaglio.
Lo scandalo
L’incidente presto assunse dimensioni enormi, travalicando le semplici dispute accademiche per trasformarsi in un vero e proprio imbarazzo di Stato. Quella che sembrava una polemica confinata tra storici e filosofi svelò un retroscena ben più compromettente: il monumento al controverso abate, accusato dai conservatori di legittimare il regicidio, non era un’iniziativa privata, ma un’opera sostenuta attivamente dai soldi pubblici e dalla volontà politica del Governo.
Lo scandalo si infiammò quando emerse che il Ministro del Tesoro, Di Broglio, aveva firmato un decreto-legge nel novembre del 1901 per stanziare ben 4.000 lire a favore dell’opera, accompagnando l’erogazione con parole di solenne esaltazione. Ma a rendere la situazione politicamente esplosiva fu il coinvolgimento diretto del vertice dell’esecutivo: il Premier Giuseppe Zanardelli.
Il Presidente del Consiglio, icona del liberalismo, si era esposto in prima persona, definendo Spedalieri “illustre” e “celebratissimo” in un discorso pubblico a Palermo. Non solo Zanardelli si era vantato di aver assicurato il contributo statale, ma aveva persino disposto che l’effigie dell’abate siciliano fosse scolpita sulla facciata del nuovo Palazzo di Giustizia a Roma. Nonostante tutto la statua di Nicola Spedalieri è ancora oggi al suo posto.