La mattina del 26 maggio 1805, la città di Milano si svegliò immersa in un clima di solenne attesa. Fin dalle prime ore, una folla imponente si riversò nella piazza del Duomo, ansiosa di assistere a uno degli eventi più fastosi e significativi dell’epoca: l’incoronazione di Napoleone Bonaparte a re d’Italia. Alle 11:30, mentre il cielo limpido esaltava i contorni dell’imponente cattedrale gotica, le batterie d’artiglieria schierate nei dintorni diedero inizio ai festeggiamenti con salve di cannone a ritmo regolare, annunciando a tutta la città l’apertura della cerimonia.
La cerimonia
La processione d’ingresso fu organizzata con una precisione e una magnificenza senza precedenti. Ad aprire il corteo vi erano le guardie francesi e italiane, in uniformi cerimoniali splendenti, che facevano da scorta alla corte. Seguivano poi, acclamate dalla folla, Giuseppina Bonaparte, imperatrice dei Francesi, e la principessa Elisa, sorella dell’imperatore, entrambe abbigliate in modo sfarzoso, coperte di gemme e diamanti, che facevano scintillare la luce del giorno. Una simile ostentazione di lusso, in un’Italia fino ad allora frammentata e politicamente instabile, aveva un chiaro scopo: impressionare, imporsi, meravigliare.
Alle 12:00 in punto, Napoleone fece il suo ingresso nella piazza, giungendo direttamente dal Palazzo Reale. Indossava il manto imperiale, portava la corona imperiale già posata sul capo, teneva in mano lo scettro e la mano di giustizia, mentre due grandi scudieri reggevano lo strascico del mantello. Lo seguivano con solennità uscieri, araldi, paggi, ciambellani, aiutanti, scudieri e maestri di cerimonie in abiti pomposi. Il corteo era completato da dame dell’alta società, ognuna delle quali recava offerte votive, e dai grandi ufficiali di Francia e d’Italia. I ministri, i consiglieri di Stato, i generali e i presidenti dei collegi elettorali del Regno d’Italia completavano una comitiva imponente, che rappresentava visivamente il nuovo ordine politico dell’Italia napoleonica.
All’ingresso della cattedrale lo attendeva l’arcivescovo Caprara, che, accompagnato dal clero e protetto da un baldacchino, lo guidò fino al presbiterio. Le pareti, le volte e le colonne del Duomo erano completamente ricoperte da drappi sontuosi, cortine di seta, frange dorate, festoni e veli trasparenti. L’interno della chiesa era stato trasformato in un grande teatro del potere. Sotto le volte si trovavano tribune riservate agli ospiti illustri: una di queste accoglieva Giuseppina ed Elisa, un’altra era riservata al doge e ai senatori della Repubblica Ligure, circondati da quaranta dame riccamente vestite. La loro presenza non era casuale, ma frutto di un calcolo politico: erano coloro su cui Napoleone riponeva particolare attenzione, poiché destinati a diventare strumenti della sua ulteriore espansione nel nord Italia.
Il momento culminante della cerimonia fu, come previsto, quello dell’incoronazione vera e propria. Secondo l’antico rito dei re d’Italia, era stata prelevata dalla cattedrale di Monza la leggendaria corona ferrea, simbolo dell’antico regno longobardo, che si credeva fosse stata indossata anche da Carlo Magno. Dopo la benedizione degli ornamenti regali da parte del cardinale, Napoleone salì da solo all’altare, prese la corona con le proprie mani e se la pose sul capo pronunciando con forza: “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!”

Queste parole, pronunciate con voce chiara e decisa, riecheggiarono tra le navate e lasciarono un’impressione indelebile nei presenti. Non era soltanto un atto di incoronazione, ma un gesto deliberato di affermazione della propria autonomia e legittimità. Come aveva già fatto a Parigi sei mesi prima, Napoleone si rifiutava di ricevere la corona dalle mani del clero: in questo modo, escludeva ogni mediazione tra il suo potere e Dio, proclamandosi investito direttamente dalla Provvidenza. Era il compimento simbolico del passaggio da generale rivoluzionario a monarca universale.
Conclusa la cerimonia religiosa, Napoleone prese posto sul trono collocato nella navata del Duomo, accanto al suo figlio adottivo Eugenio Beauharnais, viceré del Regno. Intorno a lui si schieravano ministri, cortigiani, ufficiali e magistrati. Le dame, sedute nelle gallerie laterali, offrivano un colpo d’occhio sontuoso, mentre i presenti, con entusiasmo crescente, acclamarono il nuovo re. Gli araldi proclamarono solennemente:
“Napoleone Primo, imperatore dei Francesi e re d’Italia, è incoronato, consacrato e intronizzato: Viva l’Imperatore e Re!”,
e tre volte la folla ripeté in coro, in un’ovazione fragorosa, quella formula che consacrava un nuovo ordine politico sulla penisola.
L’intera scena, preparata minuziosamente, superava per splendore ogni altra cerimonia vista in Italia fino a quel momento. Nulla fu lasciato al caso: né la disposizione degli ospiti, né i colori dei drappi, né i riferimenti simbolici all’antica regalità italiana. A rendere ancora più memorabile l’occasione contribuì anche l’intervento di artisti e scenografi italiani, come Andrea Appiani, incaricato di progettare e decorare la cerimonia: un chiaro segno della volontà napoleonica di dare al nuovo Regno d’Italia un’identità distinta, seppure sotto il dominio francese.
Quella giornata non fu soltanto una consacrazione religiosa o un’operazione di immagine: fu la consacrazione di un nuovo ordine, in cui Napoleone si proponeva come continuatore della tradizione imperiale e insieme come creatore di una moderna regalità nazionale. L’incoronazione a Milano non rappresentava un semplice atto formale, ma un momento di fondazione, una dichiarazione visiva e politica del fatto che la penisola italiana, dopo secoli di divisioni, era entrata nell’orbita di un progetto imperiale più ampio. E mentre l’eco delle acclamazioni si spegneva lentamente sotto le volte della cattedrale, l’Italia – ancora una volta – si trovava spettatrice e protagonista di un grande disegno che, tra fasto e ambizione, avrebbe segnato in profondità la sua storia moderna.